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L'archivio parmense del 900

Appunti sul dialetto di Parma

DIALETTI E DIALETTO PARMIGIANO

» Appendice del dialetto parmigiano

 

  DIALETTI E DIALETTO PARMIGIANO  ver.2 Nov 2011

Tra i libri delle biblioteche e gli articoli da Al pont ad mez della Famija Pramzana

una camminata di Eugenio Caggiati

Premessa

È attuale e urgente, oggi, rafforzare la nostra identità culturale... non per chiuderci nella nostra cosidetta «parmigianità», ma, come esige la realtà attuale, per rendere trasparente e comunicativa la nostra storia e rafforzare la cultura dell’accoglienza, per rendere più semplice l’integrazione nella nuova società multiculturale che sta nascendo, di quanti si dovranno inserire nella nostra società parmense.

Il processo di diversificazione nelle lingue e della nascita dei dialetti

Il processo della nascita e della diversificazione dei nostri dialetti ha origini lontane che si perdono nei secoli. Il dialetto, infatti, è l’espressione più immediata dell’identità di un popolo; esprime la storia, le radici culturali, il rapporto con il tempo e con il territorio.

I dialetti ci sono sempre stati e ci sono in tutte le lingue: è l’espressione vera del popolo vero; non è la lingua ufficiale né quella scolastica; non è la lingua dei potenti conquistatori e dei dominatori, anche se quelli vengono eternati dai libri di storia; ma è la lingua viva, quotidiana, diretta, espressiva di una popolazione e del suo territorio.

Anche la lingua latina scritta e parlata che ci è stata tramandata non era la lingua di tutti. Il cosidetto latino «classico» risale ai primi secoli, quelli che hanno preceduto e seguito la nascita di Cristo, 2.000 anni or sono; ma già allora vi era anche il latino volgare; già allora vi era il «teatro dialettale latino» con Plauto e Terenzio. Con la diffusione, poi, del Cristianesimo, con lo sviluppo del commercio tra i popoli «barbari», con la caduta dell’Impero Romano emergono sempre più le differenze dialettali, cioè le lingue volgari che in Italia, ed ancor prima in Europa prendono corpo intorno al 1.000. Significativa la frase di S.Agostino: «Ci biasimino pure i grammatici, purché ci capiscano i popoli».

Se oggi esiste ancora una lingua che definiamo «latino» lo dobbiamo in particolare all’Umanesimo che, nel XIV secolo, ha riscoperto e valorizzato, definendola «classica», la lingua di Virgilio, Cicerone, Ovidio, ecc. Gli Umanisti hanno ricostruito la grammatica ed i dizionari, ne hanno diffuso i testi; i monaci  li hanno trascritti.

La questione della lingua «italiana» diventerà attuale e viva mano a mano che, nei secoli, i dialetti neolatini cominceranno ad avere cittadinanza anche nella lingua ufficiale scritta e orale.
Nel 813, nel concilio di Tours, viene sancito che le omelie in chiesa vengano dette nei vari dialetti; già nel IX secolo indovinelli popolari in dialetto vengono tramandati per iscritto.
Nel X secolo abbiamo  vari documenti di notai che inseriscono testimonianze in dialetto in atti ufficiali scritti in latino. «Il placito capuano» del 960 viene ritenuto uno dei primi documenti del nuovo volgare italiano.

Dante, Petrarca e Boccaccio, che nel 1300 osano scrivere in volgare, ci testimoniano come il dialetto fiorentino, possa diventare una nuova lingua raffinata. Infatti nel 1441, con il «Certamen coronario», il primo concorso di poesia «in volgare toscano», promosso da Leon Battista Alberti, si vuole premiare la più bella poesia… nell’italiano del tempo.

Tra il 1000 e il 1800, in Italia, hanno sempre coesistito 3 lingue: il latino, la lingua dei dotti e della Chiesa, il dialetto toscano sempre più riconosciuto come la lingua italiana ed i dialetti locali. Toccherà prima all’umanista Bembo, con «Le prose della volgar lingua», e poi al Manzoni, all’inizio del 1800, chiudere la questione della lingua con il riconoscimento di una  lingua italiana ufficiale, basata sul Tetrarca e sui poeti toscani, e di tanti dialetti.

Oggi, in una società sempre più «medializzata», nella quale impera una comunicazione globalizzata, è in crisi il latino, portato al tramonto dal Concilio Vaticano II, sono in difficoltà le lingue nazionali, ma specialmente sono in crisi i dialetti, ...che, però, vanno salvati perché riaffermano la storia tipica di ogni popolo, della esistenza di ogni minoranza, l’istanza perenne di democrazia e di libertà. L’inglese, pur tra varie ritrosie nazionalistiche, sta diventando la lingua universale della borghesia commerciale di tutto il mondo.

Significativa, a questo proposito, la richiesta di Ignazio Silone, nella prefazione di Fontamara: «Lasciateci parlare la nostra lingua, non quella imparata a scuola, ma quella in cui noi pensiamo». Il rispetto della propria espressività è un diritto che deve essere riconosciuto ad ogni popolo.

Quale è stata l'evoluzione del dialetto parmigiano?

Non risulta l’esistenza di una «storia ufficiale» del dialetto parmigiano; nemmeno un’antologia né una grammatica organica riconosciuta come ufficiale. Proviamo, perciò, a mettere su queste pagine, come provocazione, alcuni appunti da confrontare e integrare con altri.

Il dialetto parmigiano ha origini celtiche, cioè preromane. In queste nostre terre, prima dell’arrivo dei Romani lungo la via Emilia, quando nel 183 a.C. fu fondata la colonia di Parma con 1000 capifamiglia, vi era una popolazione celtica che dalla Pianura Padana arrivava anche alla Catalogna, in Spagna.

Quelle caratteristiche fonetiche sono rimaste, trasformandosi logicamente, sotto i romani e nei secoli successivi. Ben poco, però, si conosce del volgare locale fino al 1700 in quanto non sono stati tramandati documenti scritti. Alcuni segni del dialetto locale stanno in un documento del Comune di Parma  del 1200 nel quale appare un «civis parmisianus»; nel Chronicon Parmense di Fra Salimbene troviamo molti termini che già indicano le trasformazioni della lingua latina e fanno emergere segni del volgare locale. Dante stesso ci dice che c’è un dialetto parmigiano, ma lo ritiene molto brutto come tutti i volgari del nord Emilia. Una piccola poesia di dodici versi, conservata nell’Archivio di Stato, nel carteggio del conte Pomponio Torelli, ci mostra una donna del popolo che vuole gareggiare in versi dialettali con il conte. È una piccola testimonianza della utilizzazione nel 1500 del dialetto parmigiano nella società locale e nella letteratura del tempo.

La presenza qualificante degli intellettuali «francesizzanti» del 1700 hanno rinvigorito gli accenti e le inflessioni della lingua d’Oltralpe sulla nostra fonetica ed inserito nuove parole.
Nel 1700 cominciano a diffondersi gli almanacchi ed i lunari in dialetto parmigiano; esprimono gli interessi del popolo, dalla lettura degli astri alla coltivazione dell’orto, alle storie piccanti ricche di ammiccamenti.

«La Catlenna D’Spazzadour», con l’edizione del 1718, è il primo testo che ci rimane, interamente scritto in un dialetto parmigiano, che testimonia l’esistenza di una lingua volgare usata anche dagli intellettuali e compresa bene dal popolo: rozze sono le persone che si danno bastonate per prendersi la Catlenna; popolari sono le cose che si dicono e si fanno. Orribili, dal Restori, vengono definiti quei versi.

Del 1725 è il lunario in dialetto, «La Fodriga da Panocia», rimasto a lungo nelle immagini parmigiane, che ha contribuito ad affibbiare a Pannocchia, fino ai nostri giorni, una particolare connotazione ironica nell’immagine collettiva. Un altro lunario del tempo è «Caporal Quatords Cazzabal».

A fine ‘700 ha scritto versi in vernacolo anche il poeta Angelo Mazza, insegnante di lettere greche dell’Università di Parma, ma ben poco ci è rimasto.

Nella seconda metà del 1700, nella Parma capitale del Ducato, la Corte dei Borbone ama circondarsi di intellettuali stranieri, specialmente francesi. Il popolo che parla un dialetto sempre più francesizzante è analfabeta e non può lasciare, quindi, scritte le battute in vernacolo che furbescamente usava.

Tre uomini di cultura del primo Ottocento hanno, però, lasciato testi in vernacolo che denotano una buona conoscenza del dialetto anche fra la borghesia del tempo: Callegari, Gasparotti e Scaramuzza. Il dott. Giuseppe Callegari ama scrivere racconti poetici goderecci e licenziosi, spesso censurati; fra i titoli indichiamo «Il sartorenni». Il dott. Tommaso Gasparotti, noto latinista, traduce in dialetto la commedia di Plauto, l’Aulularia, con un nuovo titolo di interesse molto popolare: «La pugnata di sold». Francesco Scaramuzza osa tradurre in dialetto parmigiano l’episodio del Conte Ugolino, tratto dal 26° canto dell’Inferno di Dante Alighieri.

Ma il testo poetico più conosciuto, scritto in dialetto parmigiano, risale a metà ‘800: è il «Batisten Panada» di Domenico Galaverna, collecchiese. È la prima macchietta parmigiana a prendere la luce; seguiranno: Bargnocla, la maschera parmigiana creata dai Ferrari, e Al Dsevod, il personaggio parmigiano riscoperto e sostenuto, ancora oggi, dalla Famija Pramzana. Quello di Galaverna è, però, un dialetto rustico, ha una fonetica più aperta. È una poesia satirica già lontana dal dialetto parmigiano che oggi conosciamo e usiamo.

Non si può dire, infatti, che a Parma esista un solo dialetto. Non vi era, infatti, un solo dialetto nel ducato parmense. Secondo il Giordani nel territorio del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla si contavano 59 dialetti; il Malaspina ne distingue solo 19! Oggi tendono a farsi riconoscere il dialetto fidentino, quelli di Soragna, di Sissa, dell’alta Valtaro e della Valcedra.

Dopo i lunari dialettali, che continuano ad avere fortuna ed a prendere freschi colori, nel 1800 cominciamo ad avere i primi dizionari del dialetto parmigiano. Esce il Dizionario parmigiano-italiano di Ilario Peschieri nel 1836 stampato dalla Tipografia Vecchi di Borgo San Donnino ed ampliato nel 1841 dalla Tipografia Carmignani; esce nel 1856, sempre con la Tipografia Carmignani, il grande dizionario di Carlo Malaspina. Dai proverbi metereologici delle campagne parmensi di Carlo Rognoni, si arriverà alla prima ricerca del Restori, pubblicata nel 1893, sui «primi documenti del dialetto urbano di Parma» che testimonia l’esistenza di un vernacolo locale.

Sarà il 1900 il secolo che ci darà poeti e poesie scritte in dialetto parmigiano, studiosi e pubblicazioni, canzoni e cori popolari, commediografi, piece teatrali e attori dialettali, periodici satirici come Al D’sèvod del 1919. Il governo politico e culturale di Parma, fino a metà del 1800, era stato gestito da autorità esterne alla città; era quindi dominante, logicamente, anche nella cultura parmense un respiro europeo.

Il dialetto prima veniva usato per suscitare comicità, per esprimere battute argute e sconce, saghe popolari; dal ‘900 invece il dialetto scritto sarà una lingua usata anche da intellettuali locali, da operatori politici per esprimere la forza e la vita autentica del popolo parmigiano.

Il 1900 sancirà l’affermazione di una cultura popolare che si esprime con un proprio linguaggio, sopito per secoli. Sarà, infatti, il secolo dei poeti dialettali Giovanni Casalini, Alfredo Zerbini, Renzo Pezzani, Luigi Vicini; di commediografi come Zileri, Clerici, Adorni, Aimi, Pesce, di attori come i Clerici, Montacchini, Lanfranchi; dei burattinai come i Ferrari. Sarà il secolo che cercherà di dare una logica ed una sua nobile anima al dialetto; verrà meglio definito il dialetto parmigiano attraverso le ricerche di studiosi come il Gorra, il Boselli e Jacopo Bocchialini.

Si farà un poco di chiarezza con la «Fonetica parmigiana» del Piagnoli del 1904, una monografia che cerca di fissare organicamente sia la fonetica che la grafica del nostro dialetto, ed, in particolare, con gli scritti del Bocchialini che verrà ritenuto il padre del Pezzani e del dialetto parmigiano attuale. La sua ricerca «Il dialetto vivo di Parma e la sua letteratura» del 1944, ristampata a cura della Famija Pramzana nel 1980, rimane un saggio sul merito con grande autorevolezza, anche perché viene scritto in un periodo di grande diffusione del dialetto parmigiano, e mette in evidenza anche le diversità, che si evidenziavano specialmente nella pronuncia delle vocali, delle parlate in campagna, nell’Oltretorrente e nella borghesia locale. La pronuncia larga e strascicata delle popolane dell’Oltretorrente e della Ghiaia, anche se osteggiata dal Pezzani, rimane forse la parlata parmigiana più caratteristica.

L’ampia produzione poetica di Zerbini, scritta con il dialetto dei borghi dell’Oltretorrente, il tentativo di Pezzani di rendere più raffinata ed elegante la parlata ducale, la presenza di vari poeti riuniti nel cenacolo della Famija Pramzana, l’attività di alcuni editori, gli spettacoli di alcune compagnie dialettali renderanno prolifica la produzione di testi poetici e teatrali nel ‘900. Il dizionario dall’italiano al dialetto parmigiano di Guglielmo Capacchi, i qualificati studi di Petrolini, la bozza di grammatica di Vittorio Botti, i siti di Enrico Maletti e di Mezzadri, l’impegno di alcuni parmigiani, come Lorenzo Sartorio, e di associazioni come la Famija Pramzana e Parma Nostra, di cori come la Corale Verdi e Quator stagion di mantenere in auge le tradizioni, la lingua e le radici culturali locali, sono le migliori energie che sono riuscite a ridestare, negli ultimi decenni del ‘900, il piacere di mantenere vivo il dialetto parmigiano.

 

Insieme con la lingua dialettale viene fuori l’identità del popolo dei borghi parmensi: non esiste «la parmigianità» in sé, esiste però un insieme di connotazioni culturali popolari locali. Il dialetto dei borghi  non è, infatti, solo «parla cme t’magn», ma è un linguaggio, un vivere sociale denso di valori, di affetti, di tradizioni e di ricordi che si possono riassumere nella battuta di un Dsèvod famoso come il maestro Grassi: «Vrèmoss bén e tgnèmoss vist».

Si può, infatti, cogliere l’identità dei parmigiani, far emergere le connotazioni culturali, i grandi temi, del popolo parmense attraverso la lettura delle poesie di due poeti, abbastanza diversi fra di loro, Zerbini e Pezzani, ritenuti i più qualificati poeti dialettali del ‘900 parmense. Sono i due poeti che hanno rappresentato le due anime di Parma, quella popolare dell’Oltretorrente e quella un pò borghese della Parma ducale.

Quali i temi più espressi nelle poesie dialettali parmigiane? Quali i valori fondamentali ?
L’attenzione al sociale e alla politica, uno spirito libertario ma non rivoluzionario, il rispetto per gli affetti famigliari e l’amore, il legame con le tradizioni popolari e le sagre dei vari paesi, la scuola, la musica di Verdi, il lavoro, l’affetto per la propria città, l’attaccamento ad una religiosità vaga ma diffusa.

In sintesi il dialetto ci dice che l’identità culturale del popolo parmense non ha specificità proprie: sono i valori di un popolo che ha fuso la fede cristiana con le idee libertarie della rivoluzione francese, che ama far convivere la sana laicità della cultura illuministica, molto forte a Parma, con le lotte popolari, con una religiosità diffusa ed il gusto del buon vivere, che crede nella coesistenza della propria soddisfazione con una rispettosa accettazione del prossimo.

 

In conclusione: esiste oggi un dialetto parmigiano? Qual è oggi il rapporto tra la cultura ufficiale ed il dialetto del popolo? Si può dire che il dialetto di Zerbini e quello del Pezzani, le indicazioni fonetiche e grafiche del Bocchialini, sono il riferimento, le classiche caratteristiche del dialetto parmigiano? Quanto il dialetto è ancora la lingua usata nel primo pensare? O quanto almeno è veramente utilizzato nella comunicazione popolare oggi?

Penso si possa dire che il dialetto parmigiano ancora esiste e che ancora viene usato con piacere, che esiste ancora una cultura popolare locale con una propria storia ed una sua comunicazione, che vi sono «nicchie» da pochi conosciute ma amate da tutti.

Sicuramente il dialettologo Jacopo Bocchialini ed il Malaspina, il dizionario del Capacchi, la grammatica di Vittorio Botti possono essere ritenute le fonti più autorevoli. Pezzani è il poeta locale più prolifico e famoso, di «facile» lettura; per molti, però, è quello di Zerbini il vero dialetto dei borghi e del popolo di Parma.

Ma la globalizzazione è anche alle porte di Parma…

 

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