appunti dell'Arch. Marzio PAVARANI
PIANO REGOLATORE
GENERALE 1957 - 63
Gli
anni ’50 oltre che essere quelli del “miracolo economico” sono stati
caratterizzati, da una cultura architettonica tesa a
rivendicare, attraverso un nascente neo-realismo, per altro espresso anche
nel cinema ed in letteratura, quelle”aspirazioni alla realtà” per
troppo tempo negate al fare architettonico ed in particolare al recupero
dei valori della storia ed alla memoria dei luoghi. La volontà, a
confrontarsi con il modo e lo stile di vita in continua evoluzione, al fine
di rivalutarne una “cultura
popolare” attraverso un dialogo non stilistico, che tenesse conto della
specificità dei luoghi, come predicato dalle moderne avanguardie, cadeva
nell’illusione. Non ci fu una valutazione sufficiente capace di capire
che il movimento razionalista, sotto una forte spinta speculativa, basata
solo sull’aspetto quantitativo, non riconosceva una cultura popolare
capace di affermarsi come “cultura di massa” che, per altro non
sapeva e non poteva resistere al duro confronto con il nuovo sistema
produttivo. A tutto questo si affiancava la sfiducia di non possedere un
controllo diretto del ambiente fisico, dove incominciava ad accentuarsi
quel processo di globalizzazione del mercato e di quello del lavoro,
impedendone di fatto le “mancate occasioni” di “volontà politica”
in fatto di urbanistica. Parma, aveva allora, siamo nei primi anni ’50,
subìto trasformazioni notevoli e poteva partecipare a quel “decollo
industriale” tipico di questa fase storica. Esempio evidente era la rete
viaria, allora già cospicua, che riassumeva le caratteristiche di quelle
della Provincia disponendosi radicalmente e convergendo nel capoluogo;
intersecata da uno schema ortogonale trovava nell’anello di
circonvallazione del vecchio nucleo urbano della città una tipica
barriera, dando al Comune uno sviluppo viario di Km. 430 di cui Km. 110 di
rete urbana e Km. 320 di rete extraurbana. Infatti, è da considerare
l’opera che nel primo settennio post-bellico è stata svolta al fine di
trovare soluzioni ai problemi di comunicazione che insieme a quelli già
ricordati (v. capitolo precedente), risultavano tra i più impellenti per
l’intero territorio. L’infiltramento della rete provinciale e
l’unificazione delle caratteristiche del tracciato compiutasi
parallelamente alla risistemazione stradale nell’intero territorio
provinciale e comunale, aveva il preciso scopo di soddisfare le richieste
di molti Comuni indirizzando tale attività verso i problemi più urgenti
e più pressanti di nuove costruzioni stradali come la Fondo–Val di
Taro, rappresentando un notevole contributo sia per le nuove attività che
si esercitavano all’apertura di nuove strade venendo così anche ad
interessare il problema dell’occupazione sia,infine per la sistemazione
dei torrenti e delle frane che, per un largo raggio della zone
interessate, le nuove arterie imponevano. Analogamente, la rete ferroviaria
che vedeva nel tratto Milano - Bologna la linea principale che
attraversava la Provincia e che correva parallelamente alla via
Emilia, rispecchiava l’organizzazione radiale viaria, tramite la
costruzione di nuove linee, che unite alle precedenti interessando il
territorio comunale, verificavano due incroci con la rete
stradale, entrambi a livello: uno con la provinciale per Cremona e
l’altro con la statale per Mantova. Così nel 1953 anche a Parma si iniziò
l’elaborazione del Piano Regolatore, sollecitato dalle esigenze di
interpretare in modo equo i bisogni e della società. Il P.R.G. venne
redatto dai tecnici dell’ufficio comunale, ing. Vincenzo Barcellona, ing. Renzo
Cola, ing. Alvaro Corboz per gli studi di fognatura e dall’ arch. Franco
Carpanelli, quest’ultimo dopo il’56 come collaboratore esterno. Per
quello sopra scritto non poteva essere una esperienza felice; la legge
urbanistica n. 1150/42 assegnava al P.R.G. compiti ben modesti: la
determinazione della rete delle vie principali (per altro gia compromessa
in precedenza), la divisione in zone del territorio, l’indicazione di
spazi ad uso pubblico,.. un P.R.G. che ha innovato ben poco... era sorto
come una tavola d’unione di varie iniziative private nel senso che i
proprietari dei terreni periferici al centro, negli anni in cui si
gettavano le basi del ”piano”1953-’56, avevano presentato in tempi
diversi al Comune vari piani di lottizzazione, questi piani di
lottizzazione sono stati
pari, pari come li avevano presentati i privati e quindi considerando il
massimo sfruttamento dei terreni che venivano inseriti nel P.R.G.; in
sostanza tra i diversi proprietari si era creato un autentico mercato di
suoli edificabili, lo stesso mercato che trasformava di giorno in giorno la
città e creava quel “regime di collusione” che vedeva i maggiori
proprietari stabilire i prezzi ai quali gli altri sistematicamente si
adeguavano. In tal senso non esisteva all’interno del “mercato” una
libera concorrenza in quanto emergeva l’abbondanza di aree
fabbricabili, anche in virtù di servizi o di infrastrutture sorte per
opera del Comune, favoriva esclusivamente i venditori, riflettendosi a danno
dei futuri utenti della casa. Il ruolo delle Immobiliari veniva ridotto a
causa di una domanda privata troppo insistente. Il considerare il "bene-casa” come servizio era affidato agli strumenti del piano INA Casa,
il quale inizialmente stabiliva una quota a riscatto pari al 50%, poi dal
’55 in poi elevò tale quota a
due terzi; infine col D.P.R. ’59
tale patrimonio venne liquidato, col pretesto della complessità
gestionale, favorendo l’acquisto dell’immobile al lavoratore, con
l’eccezione di una piccola parte costruita dagli I.A.C.P., I.N.C.P., Comuni
e Province. Senz’altro, a Parma, s’è fatto meno male che altrove, ciò
non permette di non verificare come le cinquanta lottizzazioni, le quali
nella lunga gestione del “piano” si raddoppiarono condizionarono il
P.R.G. stesso, favorendo la crescita a macchia d’olio della città. Nei
vari disciplinari di lottizzazione, che erano poi tanti piccoli “piani
particolareggiati” si parlava di altezze non si parlava di volume, non
c’era nessun cenno alla superficie coperta e tanto meno si
pensava ai servizi di quartiere; l’altezza degli edifici era
stabilita con un minimo di piani, tre o quattro, che poi a seconda della
capacità dei vari lottizzanti potevano essere a cinque sei piani. La
distanza di confine era quella stabilita dal codice civile (m.1,30 m.2.00); quindi
edifici di 15, 16 metri di altezza a distanza di 1/10 dell’altezza. Il
“Piano” era limitato, almeno secondo la sezione del termine, allo studio
della città lasciando inalterato quello che era l’assetto del
territorio, senza considerare quello che erano gli insediamenti e le
attività produttive di tutto il territorio comunale. Di verde, non se ne
parlava se non in particolari casi in cui il Comune era riuscito ad
inserire una certa clausola cioè, si diceva questo: per un periodo di
cinque anni i lotti, ed ed erano, solitamente di due o tre per un
estensione massima di 2000-3000 mq. (quando il piano di
lottizzazione era di 50-100.000 mq.) per un periodo di quattro, cinque
anni, il Comune aveva il diritto di prelazione su questi terreni per fare
eventuali verdi o attrezzature collettive. Il Comune volutamente o
incosciamente lasciava decorrere questi termini, per cui i proprietari dei
terreni, che si vedevano liberati da questo vincolo presentavano al
momento opportuno altri progetti di edifici per cui questi spazi che
dovevano essere di’interesse pubblico non c’erano, o se esistevano
erano in maniera frammentaria e di scarsa consistenza. La viabilità,
presentava il solito reticolo stradale, con incroci fitti con strade che si
incrociavano a 90° con calibri che oscillavano dai sei ai dodici metri con
un marciapiede con due sensi di marcia ecc.. Nemmeno l’aggiornamento
apportato all’atto della adozione parecchi anni dopo(1963), dove si
sottolineava le carenze statistiche della sua prima elaborazione e dove la
difficoltà di cogliere un disegno d’insieme era accresciuta, poté
concretizzarsi in un “sistema aperto”. Infatti, la variante del ’63
prevedeva opere notevoli soprattutto nel settore viario: la creazione
dell’arteria di scorrimento a nord della linea ferroviaria per Suzzara e
per Brescia, incrociando la statale della Cisa, la provinciale per Colorno
– Cremona, la statale via Emilia e attraversando di conseguenza anche il
torrente Parma poneva in collegamento la zona dei mercati con la zona
industriale nel settore della città a nord-ovest, dando uno sviluppo
viario di Km.11,800. La città era radiale - concentrica com’era sempre
stata quindi automaticamente si andava avanti con queste strade di una
stessa larghezza con questi anelli sempre più estesi. Dal punto di vista
viario – è stato detto nella critica che si fece più avanti all’atto
della revisione del P.R.G. 1963 si recepisce la tendenza in atto, ne
accentua le condizioni, accentua un espansione a macchia d’olio e ne
circoscrive i limiti con un anello di circonvallazione completo che
raccoglieva tutte le provenienze senza preoccuparsi di deviare le
penetrazioni radiali ne di razionalizzare l’intera rete”. Mentre, la
campagna vedeva di anno in anno aumentare i costi di produzione e un
ritardo nel processo di meccanizzazione, la città inglobando nuova forza
– lavoro proveniente dal lavoro dei campi, vedeva una crescita edilizia
rilevante, perdendo anche nella sua espansione una memoria dei luoghi. Dopo
le prime realizzazioni del Piano del’57, che era stato semplicemente
adottato e non ancora approvato dal Ministero dei Lavori Pubblici, sono
passati altri sei anni prima dell’approvazione con decreto del
Presidente della Repubblica. Nel frattempo con la legge del 18/4/’62 n.
167 si poterono collegare i programmi di edilizia abitativa pubblica alla
pianificazione urbanistica,consentendo ai Comuni di acquistare le aree
necessarie, sia per i servizi che per le abitazioni, sulla base di
previsioni di fabbisogno decennale. Sulla falsa riga del P.R.G.del ’63
nel ‘64-’65 il Comune ha inserito il Piano Edilizia Economica
Popolare (P.E.E.P.), e reperì alcune aree concretizzante in sette comparti
per un totale 364-65 ettari cioè 3.650.000mq. Contemporaneamente, la
neonata GESCAL ereditando, il patrimonio immobiliare dell’INA
Casa, attribuendosi compiti più specificativi sia sotto il profilo del
controllo del programma sia nella realizzazione degli stessi, affidava
in gran parte agli IACP la costruzione. Il P.E.E.P. era un
programma molto ambizioso; venne approvato ma poi rifatto nel 1972 dall’
ufficio tecnico comunale con la legge n. 865/71 dove non si insisterà più
sulla falsa riga di un Piano Regolatore, non ricalcando più quella densità,
quella viabilità che era stata fissata dal Piano, ma sarà un Piano fatto
ex-novo. Il programma del P.E.E.P. (’63) fu concretizzato, limitandosi al
caso dell’Emilia sud, dove erano previsti in partenza diecimila abitanti
poi non arrivarono neanche a seimila; c’era stata una sfasatura tra
domanda ed offerta dove il Comune fu costretto ad accettare la domanda di
parecchi privati, di parecchi soci di cooperative che avevano chiesto
l’assegnazione di terreni per fare una singola casa. Contemporaneamente, alla
stesura del P.E.E.P.’64, si portava avanti il discorso sul decentramento
funzionale, il quale trovava alcuni anni dopo la sua concretizzazione
nell’articolazione della città in quartieri, e parallelamente a ciò si
incominciavano a formulare gli studi di prima approssimazione sulla
revisione del P.R.G. ’63 i quali ponevano prioritaria l’esigenza di
adeguati standard urbanistici per il territorio comunale.

sopra: Piano Regolatore Generale 1957-1963
File P.R.G.
1957-1963 jpg 715 Kb››

sopra: Via Mazzini vista da P.za Garibaldi
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PIANO
REGOLATORE GENERALE 1969 - 74
Parte
terza:
STORIA
Erano trascorsi circa
un paio d’anni, dal novembre del 1963,dal decreto di approvazione del P.R.G. precedente (avuto dal Ministero dei Lavori Pubblici)
discusso ed illustrato a Roma
dell’arch. Claudio Guzzon, tecnico del Comune di Parma, che la necessità
di rispondere al mutare dei modelli di vita imponeva nuovi interventi sul
territorio. Da tempo, la cultura italiana s’interrogava sul grosso
squilibrio territoriale imposto dalla crescita delle città, intorno ad una
serie di domande legate alla logica della sua trasformazione storica. Era
già iniziata la cosiddetta “questione” dei centri antichi, ma non era
solo quella a preoccupare la redifinizione di nuovi spazi
collettivi,legate ad una nuova lettura dei bisogni sociali. La complessità
dei problemi li poteva far apparire, fortuitamente, del tutto coincidenti:
la questione delle aree centrali e dell’attribuzione di nuovi ruoli alle
varie parti della città, da un lato, e il problema della
“conservazione” e dell’uso razionale del patrimonio edilizio dall’altro, la sua crescita di rendita data dalla differenziazione dei suoli, e
sempre più sollecitata dal conseguente processo di terziarizzazione e, soppratutto nel centro storico dalla salvaguardia dei valori monumentali ed ambientali. Varie ipotesi di studio
venivano formulate da più parti diventando, espressione di diverse
metodologie d’intervento, il cui scopo era sostanzialmente identico (la
necessità di intervenire, con chiari orientamenti nel soddisfare la
vivibilità delle città) ma il modo come arrivarci era assai differente.
Inoltre per porre fine alla” tipologia dello spreco” gli
urbanisti, verso la metà degli anni ’60, esprimevano l’esigenza di
ricercare una disciplina capace di dare un utilizzo del territorio
indirizzato verso un assetto urbano più coerente alle aspettative
sociali, ed una gestione più democratica al sistema della pianificazione
urbanistica. Non furono
ascoltati. L’allora classe politica italiana, in tutt’altre faccende
affaccendata, rimandò di prendere in considerazione l’intera revisione
della legge 1150/42 e propose, in attesa di una riforma generale in materia
urbanistica, la cosiddetta “legge ponte” (n. 765 del 6/8/1967). A
Parma, dove l’Amministrazione comunale aveva rinnovato le sue deleghe di
rappresentanza pur rimanendo dello stesso colore politico (alla giunta
guidata dal sindaco ing .Giacomo Ferrari era succeduto il sindaco Enzo
Baldassi) i problemi c’erano, forse, meno appariscenti che in altre città; alle
problematiche insite nei denominatori comuni tipici, accumulati nel tempo,
nel cuore della città restava aperta quella grossa ferita, Piazza della
Pace, che già aveva visto scorrere fiumi d’inchiostro in difesa o contro
questa o quella ipotesi di risistemazione. Là dove il monumento al
Partigiano, ideato dallo scultore Marino Mazzacurati e dall’arch. Guglielmo Lusignoli (recentemente modificato
dall’arch. Mario Botta nel ambito del progetto per la sistemazione
dell’intero piazzale) si erge nel ricordo dei nobili valori di libertà
espressi dalla Resistenza, lo squallore retrostante dequalificava
l’intera zona e tutto il
centro della citta, oggi come
allora considerato il “biglietto da visita” della stessa. E, mentre si
stavano disperdendo per sempre (anche se in seguito le speranze non
morirono mai) i tentativi per la riedificazione della facciata del Bettoli
(e conseguentemente rifare “com’era e dov’era il Palazzo Ducale) che avrebbe dovuto sorgere proprio dietro al
monumento al Partigiano, dalla parte opposta del piazzale, il sindaco Enzo
Baldassi al fine di iniziare una seria definizione dello spazio, bandì un
concorso ad inviti per la ricostruzione del nuovo teatro Paganini. Tutti
conosciamo come andò a finire nonostante vi partecipassero le più
giovani e promettenti firme dell’architettura nominate da illustri professori accademici come Bruno Zevi e
Ignazio Gardella. Ma quello che interessa maggiormente (al fine della
conoscenza della analisi territoriale per capire l’ambiente in cui venne
concepito il “nuovo” piano) è il ricordare che anche negli anni ’60
i mali che già affliggevano la città antica continuavano imperterriti a
proliferare a scapito dell’intero territorio. Concentrazioni di sedi
direzionali si contendevano porzioni di spazio nella parte antica della città (cito alcuni esempi): la sede
centrale della Banca del Monte in via Cavour, progettata
dall’arch. Guglielmo Lusignoli, con consulenza dell’ing Pier Luigi
Nervi nel 1968. Un edificio sorto al posto di un altro della stessa Banca del
Monte, il quale pur rispettando in linea di massima il volume
edificabile del precedente, dimostrava che l'accrescersi delle attività
commerciali in quella parte di città non potevano esimersi dalla
necessità di questa presenza. Un altro esempio via
Verdi la Camera di Commercio. L’edificio la cui prima licenza di edificabilità risale al 1965, e quindi in piena vacanza di “piano”, fu
progettato dall’arch. Franco Carpanelli ed edificato qualche anno
dopo; si sviluppa(va) su una superficie piana di mq. 2300 circa (un piano
semi-interrato e quattro piani fuori terra) destinata in buona parte ad attività commerciali; ispirato ad una
poetica razionalista corrispondente ad una funzionalità legata a valori fisici e fisiologici a cui corrisponde una cura dei particolari (*) fu espressione di un equilibrio formale, dato nel suo insieme dalla
proporzione tra le parti, atta a creare una azione innovatrice, verso una composizione architettonica nuova, in
linea con le più avanzate avanguardie del Movimento Moderno. Questo
edificio, ha avuto un grande riconoscimento per la sua immagine
progettuale; tuttavia, eretto in quella posizione, in quel luogo non ha
fatto altro che accrescere quella dinamica di terziarizzazione, a cui
facevano da corona le restanti aree della città con le loro abitazioni, carenti, dei più normali servizi.
(*)
es: la composizione della scala interna a forma elicoidale
con un lampadario di vetro a candelotti fusi a Murano, ancorato al
piano terra da una base prismatica con catene in acciaio inossidabile

sopra:
Camera di Commercio di Parma, Via Verdi
sotto: Sede Banca Monte, Via Cavour
Il corredo
d’informazioni nel merito del ruolo che il “grande
centro” assumeva, veniva discusso nel convegno tenutosi nella sede
municipale del Comune di Parma il 18/1/69; data importante poiché da quel
giorno si può far risalire l’inizio della gestione del nuovo P.R.G.
Alla presenza di autorevoli ed illustri architetti, quali Leonardo Benevolo
e Carlo Aymonino, venne spiegato dai tecnici incaricati alla stesura del
nuovo “piano” i criteri adottati sui quali si basava il disegno del
nuovo assetto urbano. L’attenzione, era espressamente rivolta alla
proposta di un nuovo centro direzionale a sud della città (località
Mariano) e all’asse attrezzato sul Lungoparma, il quale doveva collegare
il centro “vecchio” con quello nuovo. Il tono che, questa proposta
assumeva, pur nella sua liricità, (nella quale per altro si rivendicavano
le buone intenzioni di un riequilibrio territoriale espresso in uno slogan
del tempo “i problemi del centro si risolvono dalla periferia”)
lasciava scoperto il momento della verifica sul contenuto. Le perplessità
nascevano nel rilevare, che il meccanismo principale sul quale doveva
reggersi gran parte del nuovo assetto spaziale,l’asse attrezzato sul Lungoparma, trovava o poteva trovare diversi impedimenti sia di natura
economica e si anche di natura ambientale, in particolar modo, idrica. Tuttavia, non si
poteva pensare che “la memoria della città a cui noi non ci sentiamo di
rinunciare”(Benevolo) fosse conservata nelle condizioni attuali, con il
pensiero di eludere le necessità e i compiti che le altre parti della
città dovevano assumere rispetto al centro antico. Quindi, per la prima
volta, maturava l’idea di una elaborazione di un Piano Particolareggiato
per il centro storico:una riflessione critica verso la storia e i valori
del passato che imponeva nuove scale d’intervento sulle quali dovevano
basarsi le proposte avanzate dalla cultura italiana da questo periodo in
poi. La nuova dimensione urbana, veniva teorizzata anche in Italia,con l’inserimento del centro storico
in una dinamica più vasta; in tale visione le nuove filosofie inerenti il
sistema di come strutturare i
gradi di tutela del territorio attraverso idonee scale di intervento, in
particolare in quella parte che viene definita “centro
storico” esponevano due significativi atteggiamenti: la ripetizione del
modulo strutturale del tessuto antico, il cui fine era quello di assicurare
un corretto operare sulla città, viceversa il considerare la città antica
come una realtà globale “da collocare in una conveniente posizione
rispetto alla città moderna”. Il merito maggiore fu quello di
evidenziare (cosa mai appurata prima) i criteri che potevano
ridefinire il centro antico in termini di “risanamento” verificato in
una tutela ambientale dell’intero territorio, ed accorgersi in termini
concreti della “presenza del passato” al fine di considerarlo, “con
la sua somma finita ma inesauribile di esperienze” (Portoghesi). Ma questo
era solo l’inizio di quel lungo processo di maturazione sui concetti di
riuso e di restauro che, nell’ambito più propriamente disciplinare era già iniziato nel 1964 con la “Carta del restauro” dove
veniva tenuto in considerazione anche la cosiddetta edilizia minore
all’interno del centro antico. Però, non essendo ancora formulata la
legge n°457 del 1978 (obbiettivo: criteri e modalità di intervento
sull’edilizia da recuperare) al centro storico veniva demandato la sola
approvazione di un piano particolareggiato il quale pur proponendo una
fotografia sul esistente, rimaneva in fase esecutiva inefficiente. Nel caso
specifico di Parma, fu l’Amministrazione stessa a fornire ai tecnici
incaricati alla stesura del “piano” il materiale inerente “lo stato
di fatto” sulle condizioni di conservazione degli edifici, (il quale si
riferiva solo ad una semplice analisi dei valori storico artistici sui
quali si potevano trarre indicazioni operative solo rivolte ad una
specificazione tipologica) e nessun altra indicazione, venne data, ad
eccezione dell’ormai “blasonata” Piazza della Pace individuata nella
vocazione di verde pubblico
attrezzato. Quindi, per quella Piazza, diventata da tempo un enorme
“parcheggione” altro concorso per idee (agosto 1973) questa volta
pubblico e per la sistemazione complessiva; la cronaca impone di riferire a
chi scrive il grosso equivoco sorto intorno allo svolgimento del
concorso: la competizione per idee pensando, che tali dovevano rimanere. I
partecipanti presentarono i loro progetti (indicati con un motto) senza
considerare i veri interessi di realizzazione quindi non evidenziando, le
concrete soluzioni di cui il requisito di funzionalità imponeva.
L’esito non fu completamente soddisfacente, anche se fu attribuita una
graduatoria di merito; venne, invece, preso in considerazione il
contributo esterno (a concorso già chiuso) dell’Istituto di Storia
dell’ Arte dell’Università cittadina, proposto dal prof Carlo Arturo Quintavalle e dall’arch. Guido Canali. La soluzione presentata in questo
progetto condivisa da chi “in commissione e fuori”apprezzò i
requisiti progettuali nei suoi contenuti interdisciplinari volti alla
praticità e funzionalità, suscitò polemiche per come, essa s’era posta all’attenzione della gente; tuttavia, l’idea
divenne da questo momento in poi base culturale ed operativa per la
sistemazione della intera
zona; prova evidente è nel
verificarne oggi che, la definitiva
sistemazione, è molto simile
al progetto allora proposto. Il vento del ’68, non aveva tralasciato nel
suo coinvolgimento sociale, la condizione abitativa che in Italia era per
l’evoluzione dei tempi diventata problematica. Con la legge
865/71, voluta e conquistata con un grande movimento di massa, che
rivendicava il bene casa inteso come servizio sociale, il nuovo “piano” non poteva essere indifferente a quei criteri innovativi
tesi ad una politica organica sulla casa e dimostrare una maturazione di
“coscienza urbanistica” che solo poteva favorire una più equa
gestione dei diritti e dei doveri nel campo della realizzazione edilizia e
non solo. La volontà, già
manifestata a Parma con il totale abbattimento dei “capannoni”, iniziato nella primavera del ’65 e terminato alla
fine del ’69 e, con il trasferimento degli stessi abitanti in altri
edifici, dimostrava determinazione verso nuove risoluzioni di cui la 865/71
avrebbe potuto meglio specificare. Inoltre,
il ruolo che la Regione andava ad assumere,sostituendosi ai poteri dello
Stato, poteva essere di stimolo per una più efficiente gestione del
territorio (sfruttando anche la legge 865/71 per i piani di insediamento
produttivo) specie in Emilia Romagna dove esisteva una sostanziale
omogeneità politica fra livello regionale e locale. Tuttavia, la
conflittualità espressa nella mancata definizione dei compiti fra
decisione politica e quella tecnica, i limiti procedurali dovuti anche
nella mancate previsioni di qualsiasi mezzo finanziario, penalizzavano le
soluzioni dei problemi, nascosti anche in qualche modo all’interno di
valutazioni tecniche. Per Parma al cui disegno del nuovo “piano” era già
stata eliminata la parte più rappresentativa, l’asse attrezzato
disegnato sul Lungoparma, la tempesta dello scandalo edilizio bloccò
totalmente ogni reale realizzazione con il danno di vedere compromesso
ogni sforzo che fino ad allora s’era fatto per la gestione del
territorio. Le prime avvisaglie si erano verificate nella primavera del
1975, allorché i consiglieri di minoranza sollevarono in Consiglio
Comunale alcune perplessità in merito ad alcune licenze edilizie. Poi,
nel mese di giugno faceva la sua comparsa in città il “libretto rosso” del Comitato di lotta per la
casa, mentre la magistratura aveva già predisposto le indagini. Nel mese
di ottobre venivano stese davanti al monumento al Partigiano le famose
lenzuola con denunce specifiche; la Giunta comunale socialcomunista entra in crisi e si dimette, arresti, comunicazioni giudiziarie
ecc.. Anche il cambio dell’amministrazione comunale, avvenuto con regolari
elezioni, la quale mantenne la stessa identità politica (al sindaco Cesare Gherri subentrò il sindaco Aldo Cremonini) non
calmerà il susseguirsi frenetico di questa tormentata vicenda destinata a
durare nel tempo con incredibili episodi. Come una metastasi, l’indagine
partita dal nuovo centro direzionale si allargava per l’intero
territorio comprensoriale con interessi che colpivano anche le strutture
viarie, lasciando in sospeso l’intera evoluzione urbanistica della città.
Questa situazione diede luogo ad una vera delegittimazione del progetto
per il nuovo “piano” tramutata visivamente in una totale paralisi
edilizia e all’arresto dell’economia locale in vari settori. Poche
gru si vedevano in giro: quella sempre visibile fin dal 1945 nel centro
storico all’interno dell’edificio farnesiano della Pilotta, quelle in
via Abbeveratoia inerente l’ampliamento dell’Ospedale Maggiore, il quale nel tempo avrà modo di allargarsi
ulteriormente con nuove costruzioni
sempre in sintonia con le innovazioni tecnologiche,quella riferita al
nuovo Campus universitario all’estrema periferia a sud della città, e
poche altre sparse qua e là ai bordi del comprensorio. Il rammarico di un
occasione perduta, poteva trovare consolazione nel vedere la città
raggruppare tutte le sue energie più sane, rappresentate non solo da
intellettuali ma anche (in particolare) da gente comune, mobilitate in una
scommessa di rivincita che il tempo non avrebbe negato. Nasceva in quegli anni (dicembre ‘75) l’emittente locale, Radio Parma, la prima
radio “privata” sul suolo
nazionale, la quali in pochi mesi avrebbe fatto sentire la sua voce ben
oltre i confini della città. Una voce libera posta al servizio dei problemi della gente, organizzata da un
valido staff che, vedeva nel suo direttore Carlo Drapkind, l’espressione
più alta di una democratica informazione. La cultura della città, doveva
trovare grossi punti di riferimento con il sorgere di nuove iniziative di
carattere sociale appoggiate, anche dalla formazione di nuovi circoli
politico - culturali, un solo esempio: è di questi anni la nascita del Circolo culturale “Il Borgo”; poi, le innumerevoli mostre e convegni di carattere storico, artistico, o commemorativo-celebrativo che, favorirono anche un richiamo turistico
rilevante, contribuirono a rasserenare gli animi e valorizzare le
tradizioni locali. Intanto, l’innovazione legislativa maturava la legge
457/78 la quale consentiva di usufruire dei fondi pubblici anche per il
recupero del patrimonio esistente. In tal senso, la dizione di
“recupero” veniva sempre più palesemente intesa come atto di tornare
in possesso di qualcosa nel senso del “riuso urbano” con il tentativo di porre fine a quelle
confusioni lessicali fra “restauro” (da riservare ai monumenti) e
“recupero” (cioè riuso urbano) i cui termini sono specificativi di
differenze nelle modalità dell’oggetto stesso dell’intervento. Ed
era evidente che, il dibattito iniziato sul problema della casa (con sempre
forti tensioni sociali) interessasse l’azione di riqualificazione del
patrimonio dei centri storici di cui gli spazzi aperti dai nuovi
provvedimenti legislativi potevano aiutare a raggiungere soluzioni; anzi, le
esperienze pilota, sul territorio nazionale, interessate ad un recupero ed
ad un riuso del centro antico, contribuirono in modo rilevante alla
emanazione della legge 457/78 (per la parte riguardante il recupero).
Bologna, ebbe il merito attraverso l’arch. Pier Luigi Cervellati (allora
assessore all’urbanistica del capoluogo) di essere tra le prime a
verificare sul territorio questa esperienza con una metodologia di
intervento il cui studio analitico per il “restauro e riuso” (i termini
appaiono insieme a dimostrazione di un non distinguo) annullava “la
sensibilità del progettista restauratore (come si legge nel libro “La
nuova cultura della città” scritto dallo stesso arch. Cervellati) sostituita da un metodo rigoroso… nella classificazione per
categorie tipologiche e nella definizione dell’organizzazione
costruttiva e distributiva corrispondente… nell’individuazione dei
parametri compostivi e tecnologici costruttivi originali… una prassi
operativa progettuale… al fine di non aver mai caratteri difformi pur
nelle diverse tipologie.” Evidentemente, a questa esperienza-pilota, ne
seguirono immediatamente altre come quella di La Spezia (1976) Livorno
(1977) le quali non si mostrarono molto in sintonia con quella bolognese.
L’interesse culturale e sociale, per tali
argomentazioni, inevitabilmente, interessarono anche Parma. La cronaca
locale di quegli anni (in particolare nel secondo quinqunio) è ricca di
documentazioni in cui si registrano notizie, specifiche riferite ai
pareri sul riuso urbano del centro storico(documentate da studi di professionisti) ed alla problematica sociale della
casa; quest’ultima, penalizzata
anche dai noti eventi sopra descritti,appariva grave ma non drammatica
come in altre città. Al seguito di numerose occupazioni con i relativi
interventi delle Forze dell’ordine, la gravità del problema sollecitava
anche una disponibilità alla revisione del P.R.G. L’interessamento di
tutte le forze democratiche (dall’Amministrazione locale ai partiti politici ai sindacati, agli Iacip, il Sunia fino al
gruppo costruttori aderente all’Unione industriali ecc..) produsse basi
organizzative destinate da subito ad intervenire con specifiche proposte
che confluirono nella formulazione della legge sull’equo canone(27/7/78) e conseguentemente sul problema casa. Contemporaneamente, veniva
sollecitata una rapida individuazione di aree per insediamenti di tipo
economico popolare(Unione industriale)ed anche un invito
all’Amministrazione comunale ad apportare in breve tempo un Peep per il
centro storico(Sunia).I tempi erano ormai maturi per una ripresa di una prospettiva di variante al “piano”.
Essa, doveva essere capace di interessare anche il centro
storico,prendendo atto delle esperienze fatte da altre città,in merito ai
nuovi orientamenti e a nuove interpretazioni disciplinari sul recupero di
questa parte di città. Questi problemi d’attualità( riferiti al
recupero dei centri antichi) riportarono alla ribalta nazionale la città
in merito agli interventi svolti dalla Sovrintendenza ai monumenti e
dall’Università per i lavori compiuti nell’intervento sull’edificio
monumentale della Pilotta. I lavori eseguiti,nella primavera del 1977,
nelle ali nord (destinata a museo) ed est (Istituto di storia dell’arte)
mettendo in contrapposizione dialettica l’allora sindaco avv. Aldo
Cremonini e il sovrintendente
di allora arch. Angelo Calvani nella
sostanza stimolarono da parte dell’Amministrazione comunale, una più
attenta revisione dei criteri di conservazione nel recupero del patrimonio
abitativo e quindi una rielaborazione sulle norme espresse nel nuovo “piano” riferite,in particolare,
al piano particolareggiato del centro storico. A tale scopo, vennero
assunti dall’Amministrazione comunale ,destinati all’ufficio tecnico,
giovani e validi architetti,smaniosi di affermarsi, a cui venne assegnato
lo specifico compito di elaborare una “disciplina particolareggiata per
gli interventi nel centro storico”. La meticolosità,espressa nel elaborare una attenta analisi relativa a favorire quel unità teoretica e metodologica da porre alla base
per le concrete realizzazioni,specifiche in quella parte di città,produsse
una normativa talmente rigorosa atta a scoraggiare il più semplice
intervento(Bologna docet ?). Frutto di uno scienticismo di notevole
spessore culturale,lo studio nella sua corposa elaborazione andava quasi
ad annullarsi riducendosi a pochi cenni in quella parte che forse più di
ogni altra aspettava,da tempo, chiare e precise regole d’intervento:
Piazza della Pace. Ricordo: quando venne dato da parte dell’Amministrazione
comunale l’incarico all’arch. Gian Carlo De Carlo per la sistemazione
globale della Piazza (21/12/82), la cui proposta progettuale mostrava un
autentica colata di cemento,costringendo lo stesso progettista ad
abbandonare l’incarico per le varie opposizioni sollevatesi in città,la
normativa debole in quella parte del centro storico divenne un comodo
alibi sul quale scagionare “l’equivoco” di un errato risultato. Ma quale altre motivazioni
potevano indurre, l’Amministrazione comunale, nel gennaio del 1978 a
presentare una variante al P.R.G. con un carattere d’emergenza per “i
motivi di inattuabilità” del “piano” vigente?La non rispettata
previsione di un incremento demografico (70.000 ab. rispetto al ’69,data di prima approvazione del
progetto di piano mentre i dati al ’77 confermavano i livelli
demografici quasi irrilevanti)o le cause di una crisi economica sociale già
denunciata,a livello nazionale, nell’inverno del ‘73 con il prezzo dei
prodotti petroliferi che determinarono l’austerity e il conseguente inizio di un ristagno generale dell’economia,con
conseguente riflesso per ciò che compete l’assetto territoriale ; oppure a queste già valide premesse,
quella forse espressa dall’allora assessore all’urbanistica Lionello
Leoni in incontri
pubblici,(svolti sia con gli
Ordini professionali che, quelli promossi da varie Associazioni culturali
ecc..) cioè quello di verificare e conseguentemente togliere “quelle
mine vaganti” lasciate dallo scandalo edilizio. Tutte queste ipotesi
sono da ritenere valide. Il P.R.G. lasciava sul territorio indicazioni,
riferibili agli ultimi scampoli di una teoria organicistica che, aveva
individuato i problemi e cercava di ordinarli gerarchicamente e di capire
quali erano le soluzioni. Privato, del quasi totale assetto
viabilistico,sminuito nella sua efficacia operativa, rimaneva tecnicamente
valido per la competitività e compatibilità delle sue scelte le quali
nel tempo avrebbero dato garanzie sugli obbiettivi da raggiungere. Ormai,
la nuova società post-industriale s’era imposta,in sintonia ai nuovi
fenomeni sociali,con interessi che avevano spostato ed ampliato i nuovi
connotati di una politica urbanistica verso tematiche sempre più ampie in
cui il ruolo tecnico doveva rispondere ad una progettualità, rivolta ad
una forte ristrutturazione dell’apparato produttivo. Tuttavia, oggi a
distanza di trenta anni,riconosciamo che certe indicazioni insite nel
“piano” hanno avuto un notevole riscontro; penso agli insediamenti
produttivi,al centro interscambio merci (Cepim) indicato in località
Fontevivo (diventato per l’itero assetto regionale nodo cruciale tra
Nord e Sud Europa); oppure all’intuizione avuta dall’Ente Fiera per la
zona di Baganzola la quale
negli anni ottanta diede vita a quel quartiere fieristico che trasferitosi
dal Parco Ducale ebbe il merito ,grazie anche al suo presidente di allora
arch. Flavio Franceshi,della creazione del metting alimentare denominato
Cibus, gettando la prima pietra per quella che, all’inizio degli anni
2000, sarebbe stata la conquista dell’Authority alimentare a livello
europeo.
La trasformazione fisica della città era destinata a non ignorare un’altra
idea del “ piano “ : il Campus universitario localizzato alla estrema
periferia sud. Il crescente interesse pubblico, sorretto anche
dall’apporto qualificato del corpo docente, trovò nell’emanazione della
legge 6/3/1976 n°50 un incoraggiamento teso a favorire le proposte
d’intervento nel settore dell’edilizia universitaria ( dipartimentale,
residenziale, sportiva ). Un servizio da tempo richiesto dalla
collettività, recepito dal “ piano “, con un rifiuto quasi totale
dell’idea di un “ Campus anglosassone “, non trascurava la locazione
preesistente in centro storico, anzi con essa intendeva essere un tutt’uno.
Questa proposta, indipendentemente dalla situazione venutasi a creare
all’interno della gestione del “ piano”, aveva preso subito consistenza
grazie al qualificato interessamento dell’allora dirigente universitario
dott. Gian Paolo Usberti; il medesimo, nel trovare l’occasione di una
attività coordinatrice tra iniziativa pubblica e privata, si sforzò
nell’indicare una “ricucitura “del territorio tra l’area del nuovo
insediamento universitario e la città, anche per sfatare le dicerie che
indicavano in questa scelta edificatoria il sorgere di una “ Cattedrale
nel deserto “. In tal senso, sul territorio, per accontentare le nuove
esigenze di una università al passo con i tempi, si indicarono i
progetti particolareggiati necessari e gli espropri indispensabili e
possibili. Sostanzialmente con questa operazione veniva evidenziato,
attraverso il progetto di nuove strutture rispondenti alla creazione di
nuovi corsi universitari e di nuove facoltà, idonei servizi per le
stesse identificati in mense, alloggi per studenti e docenti, circoli
ricreativi e sportivi ecc.. Il territorio, espandendosi, poneva
l’attenzione su un tema fondamentale della pianificazione degli anni a
venire, il quale potrà considerarsi l’inizio di un avvicinamento ad una
nuova idea di disegno della città: la costruzione di un nuovo assetto
urbano per parti, la cui differente organizzazione, favorendo una
sistemazione della stessa, ne evidenzierà, a priori, la sua forma.
Infine, il progetto di questo “ piano “ (che negli anni ottanta verrà
corretto con ben otto varianti, con i rispettivi adeguamenti fisici e
legislativi ) tra gli innumerevoli ostacoli riuscì a lasciare un’altra
eredità posta in sintonia con l’evoluzione dei tempi, ormai
chiarificatori del dualismo disciplinare tra l’architettura e
l’urbanistica, sempre più identificate insieme. Il riferimento
all’edificio delle Poste e delle Telecomunicazioni sorto nel quartiere Montebello, in una parte dell’area destinata al nuovo centro
direzionale, (anch’esso rimasto orfano della struttura viaria
riguardante l’asse attrezzato sul Lungoparma) non è causale. Questo
edificio, progettato dall’arch. Franco Carpanelli, nella metà degli anni
settanta, edificato dieci anni più tardi, su una area di superficie
piana di mq. 13.000 fu destinato, per varie ragioni logistiche, a
diventare la sede principale della città per il servizio postale,
interpretando il ruolo che aveva la vecchia sede, nel centro storico, e
demandando a questa funzioni ordinarie. Dei 13.000 mq. dell’area a
disposizione, l’architetto ne rende edificabili soltanto 3.850 mq.,
( per uso della Direzione) il
resto ad uso esclusivo dei servizi riservati agli addetti ai lavori ed
all’utenza e mette anche a disposizione un ampio parcheggio di uso
collettivo. Il rigore progettuale, dato alla composizione disegnata nei
due corpi principali tra loro affiancati (uno di 2.780 mq. a forma di
parallelepipedo, composto da un piano seminterrato e sei piani fuori
terra e l’altro a forma di cubo di 1.070 mq. di soli tre piani destinato
ai servizi comuni, è sottolineato in una espressione nitida della sua
struttura verticale composta da cristalli a lastre bicamere e monolitici
a file alterne: una delicata rarefazione architettonica, libera da
strutture e sovrastrutture che ne determinano l’attenta riuscita
nell’integrazione con l’ambiente.

sopra:
Poste di Via Montebello
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